Ustica sape

A proposito di Fari!…


faro di Punta Cavazzi Il faro è lì. Immobile.

La lava, scurissima, lo sostiene, lo protegge dalla tempesta che gli schianta le onde quasi addosso. E’ una corazza possente la scogliera di lava, un piedistallo che sa di fuoco e di forza, possente come l’eruzione che l’ha generata.

Nera, nera come la notte che lo anima: l’occhio del ciclope si apre, finalmente, è tempo di scrutare l’infinito. Un bagliore fioco sembra soccombere alla forza di un assalto invisibile. Il vento ruggisce contro la sagoma imponente, che deve resistere ad una torma di cani arrabbiati, ma, ecco, lo sguardo adesso penetra la notte e un piccolo lampo di luce si trasforma in un brillante che arde, sempre, sempre di più.

La forza della vista passa oltre lo sconquasso dei marosi, decine, centinaia e centinaia di saette silenti si scagliano al di là dell’oblio …

Quelle parole lo avevano colpito. Aveva letto di un vecchio faro tra le pagine di un libro che sapeva di mare in ogni foglio, anziché di inchiostro.

Parlavano di un tempo ormai lontano, quando gli uomini e i grandi fanali vivevano assieme, dando vita ad un connubio senza tempo che non aveva la parvenza di un lavoro, agli occhi dei più, anzi pareva una condanna da scontare nell’isolamento più totale. Ascoltando il vento e il mare.

Eppure il guardiano del faro era considerato un uomo quasi leggendario, si doveva occupare di una torre che non aveva né campane, né orologio, il cui ticchettio era silenzioso e abbagliante.

Il suo lavoro custodiva un segreto mai sussurrato, fatto di scalini, ingranaggi, lubrificanti, in cui si perdeva come quando dal balcone della lampada guardava il mare e ne assaporava con gli occhi le tinte cangianti del giorno, che avrebbe lasciato alla notte i riflessi ardenti del sole che moriva oltre lo Scoglio del Medico.

Succedeva sempre così quando passava da Punta Cavazzi.

A volte, solo qualche pensiero in più che scivolava dentro con forza, riusciva a distogliere il suo sguardo dal grande faro bianco che brillava al sole…

Prima di guardarlo lo pensava e, ancor prima di pensarlo, i suoi occhi avevano già percorso il Passo della Madonna, il minuscolo valico a strapiombo sul mare che lo avrebbe portato a grandi passi verso quell’amico fidato che trovava sempre lì.

Quando era un marmocchietto piccolo piccolo era rimasto attonito nel vedere la grande costruzione che improvvisamente gli era apparsa subito dopo una curva. Aveva stretto forte la mano di suo padre e un gran tumulto lo stava facendo sussultare; non capiva cosa fosse quella enorme cosa tutta incatenata, rivestita di ferro per tutta la sua lunghezza, quasi a toccare il cielo.

“Cos’è quello, papà?” – chiese quasi tremando. Tirava un forte vento, si sentiva sibilare dappertutto, e questo intimoriva il bambino, impietrito, che era riuscito a fare la domanda con un fil di voce, arrestandosi di colpo.

L’aria profumava di salsedine portata a raffiche. La campagna, cullata dai tepori della primavera, non era da meno. Da ogni angolo si propagava l’odore fresco e a volte violento delle fioriture, ma Toto non sentiva né l’una né l’altro. La sorpresa, nel vedere quella cosa ignota e grande era stata troppo forte.

Papà Antonio aveva raccolto il messaggio di allarme della sua  piccola creatura e, senza tanti complimenti, ma neanche senza scomporsi più di tanto gli rispose: “E’ un gigante, non vedi? Guarda!” Facendo lentamente alcuni cerchi nell’aria, per non turbare ulteriormente suo figlio, disse, piano piano: “Gli hanno messo le catene, così non può muoversi e far male alle persone. Ogni tanto un signore entra nella sua pancia, da una porta fatta apposta e gli dà da mangiare. E lui dorme…”

Il bambino era rimasto colpito dalla sicurezza con la quale il papà aveva descritto la situazione e, senza fare altre domande, temendo che il gigante si svegliasse, prese a tirare con tutte le forze che aveva la sua piccola mano: “Andiamo andiamo via, non voglio stare qui!”

“Sì andiamo, vedo troppe nuvole che si avvicinano, potrebbe piovere da un momento all’altro. Camminiamo, allora, svelto!”

Toto ricordava ancora quel giorno. E rideva. Una risata innocente lo aveva addirittura fatto sgorgare tiepide lagrime saporose.

Mentre tornavano, qualcosa gli toccava la gola e non lo faceva respirare bene, ma, sotto sotto, la paura che il gigante potesse riaversi dal suo assopimento, rompere le catene e inseguirli, fece andare in fondo al mare tutte le rassicurazioni che aveva ascoltato fino a quel momento. Alla vista di casa lasciò la mano del genitore, e corse a perdifiato verso la porta; una volta dentro si rifugiò, con più ardore del solito, tra i seni della mamma, abbracciandola con vigore.

Salvio Foglia

Continua…

 

 

Rispondi con il tuo Commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.