Ustica sape

Il Faro incatenato (10^ puntata)

faro di Punta Cavazzi

L’orizzonte appariva fasciato da una lieve coltre leggera, tenue quanto basta per lasciare intravedere emozioni di ogni tipo, impalpabile al tocco di ogni più remota sensazione.

L’imbarcazione andava incontro a una barriera di luci fragili e opache, inseguendo un confine che non era ancora netto e preciso. La sua scia, come flebile impronta timida e vana, accentuata qualche volta dagli affondi della prua, movimentava lo stato di quiete delle acque, quel giorno particolarmente percettibile.

Il mare sembrava ancora addormentato; solo qualche carezza, appena accennata da un filo d’aria in movimento, faceva rabbrividire l’immenso corpo inciso dal battello. La sua corsa apriva una ferita spumeggiante, subito rimarginata dalla calmeria onnipresente.

Tutte quelle anime vive, avvolte dalla fisicità dei corpi, erano ancora immerse non già in un’acqua che le circondava da ogni lato, piuttosto entro i limiti della propria esistenza, consegnate al nuovo giorno come un’offerta sacrificale per placare un tumulto interiore, ovvero per reclamare una dose di inseguita felicità…

Andrea non inseguiva un sogno, si era imbarcato con uno scopo preciso: lavorare; non era un “coatto” ristretto da ceppi, fisici e intimi, legato ad altri compagni di sventura, che raggiungevano Ustica insieme alla scorta, né un parente di questi.

Loro, i “coatti”, spesso sognavano sui battelli a vela e i piroscafi, non sempre cullati dal mare calmo: mogli, figli, case, luoghi in cui tornare…

Erano sogni di breve durata, spesso le condizioni del mare non consentivano una traversata felice, resa ancora più tetra dal rumore dei ferri e dalla stretta che recavano manette e altri arnesi di costrizione.

Il vagheggiare dei confinati non ammansiva la precarietà della navigazione. I ricordi venivano chiusi come in scatola e non c’era verso di avvicinarsi interiormente a quanto avevano dovuto abbandonare; a questi soggetti non rimaneva che la miseria della condizione di ultimi: feccia degli uomini se condannati per reati comuni, oppure gente disturbata  e disturbatrice, politicamente pericolosa.

L’isola accoglieva torme di confinati, gente che finiva in un posto aperto, sotto il cielo e il sole, con l’illusione di sentirsi liberi. Era il tragico paradosso della prigione  (apparentemente) senza recinti, che segregava corpo e anima all’interno di uno spazio in cui il mare era il tragico muro più esterno, la piazza del paese, invece, qualche passo più oltre, lo spietato limite valicato il quale l’umanità spariva nell’inferno della punizione e dell’isolamento.

Andrea  vi sarebbe arrivato da uomo  libero: la sua libertà si chiamava lavoro.

Anni prima era stata affrontata una questione decisiva: rendere più sicura la navigazione in mare aperto, resa insidiosa dalla presenza di secche, quasi a pelo d’acqua, vicine alla costa. Furono individuati due siti nei quali costruire un faro, sì da avere almeno due occhi che potessero arrivare a coprire i punti più pericolosi.

Uno si trovava in alto: si elevava sopra innumerevoli strati di roccia, le cui pieghe, curve e sinuose, avevano tutta l’aria di essere state modellate dal capriccio di una mano ardita e impertinente, le cui movenze si trovano impresse sul bordo di uno strapiombo mozzafiato.

I gabbiani lo hanno trasformato in un condominio rumoroso e petulante, ma avrebbero fatto buona guardia al faro sospeso tra cielo e mare.

Una scogliera color della notte avrebbe ospitato l’altro, invece; si sarebbe poggiato sul suo dorso poderoso, ma più in basso, a sfidare la furia delle tempeste, che avrebbero provato a ghermirlo con i loro poderosi artigli schiumosi prima di frantumarsi contro la dura roccia sbocciata da un fiume di lava.

Le pratiche fecero il loro corso; ci volle del tempo. Prima fu la volta dei rilievi, poi arrivarono i progetti. Seguirono scartoffie, passaggi tra uffici, firme e delibere, gare ed appalti. E ancora altre firme.

Li costruirono i confinati. Pietre e catene.

Chi lavorava poteva uscire dal paese e parecchi si recavano in campagna a zappare e spietrare.

Grazie alla costruzione dei fari, file di uomini poterono superare limiti altrimenti invalicabili e dai più mai superati. Solo qualche temerario aveva l’ardire di sgattaiolare dietro la fila di case che costituiva la linea di confine, oltre la quale non era permesso andare; ancora meno erano quelli che l’avevano fatta franca, sfidando le guardie e i “cammaruni” punitivi, in cui sarebbero stati rinchiusi, una volta scoperti, a pane e acqua.

Il lavoro era duro, ci si spaccava veramente la schiena, ma si riusciva a far finta di evadere, a vincere la monotonia delle camminate, in su e in giù, lungo la piazza, per tutto il giorno.

Salvio Foglia

Continua…

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