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Il Faro incatenato (7^ puntata)

faro di Punta Cavazzi

Andrea si era imbarcato prima dell’alba, per inseguire il destino via mare.

Conosceva bene i solchi regolari impressi nella terra dalla zappa e dal lavoro di ogni giorno che, al tramonto, evaporava insieme alle gocce di sudore che si rintanavano nelle rughe della fronte.

Quella mattina avrebbe visto sorgere il sole da un deserto. La pista che avrebbe attraversato non era fatta di sabbia cocente e minuscoli granellini impertinenti, ma di acqua, a perdita d’occhio.

Una volta persi i riferimenti, dapprima con la banchina del porto, quindi con le tremule luci del campanile che dominava le altezze della città, si era trovato a tu per tu con un orizzonte nuovo, sempre uguale alla vista da ogni lato dell’imbarcazione, evanescente e, nello stesso tempo, lontano da ogni tempo.

Dentro di sé penso, guardando lontano, verso i primi accenni della luce: “oggi il sole non si affaccerà tra gli alberi dell’orto”.

La stella di fuoco venne fuori all’improvviso, fece il suo ingresso da una soglia senza forma, come se l’umore plastico del mare avesse aperto una invisibile botola ben salda tra le oscillazioni dell’acqua quasi ferma.

Il nero terrificante della notte si era dileguato, una mano invisibile tinteggiava il cielo, cancellando a poco a poco gli astri che bucavano il tetro mantello del riposo.

Dapprima era il nulla, ora, invece, la mano si faceva largo tra i colori accesi che segnavano il cammino di un orizzonte incandescente: il confine delle acque era diventato un crogiuolo e una fiammante spilla d’oro si sarebbe appuntata, di lì a poco, nel cielo, per rendere ancora più splendente l’abito azzurro che ogni uomo avrebbe indossato nei suoi pensieri, al risveglio.

Nessuna alba è uguale alle altre, passate e prossime.” Andrea era immerso nei suoi pensieri.

Lo spettacolo del sole nascente lo aveva sempre affascinato e turbato a un tempo. Già altre volte aveva avuto occasione di aspettare l’alba; non molte, in verità, o, almeno, non tante quante gli sarebbe piaciuto.

Quando era piccolo, nella notte della festa, in estate, mentre il grande fuoco, ridotto in piccole fiammelle e braci intense, rischiarava i volti di quanti dormivano – dopo i balli e lo schiamazzo generale -, rimaneva sveglio: era sempre lì, a scrutare l’orizzonte, in attesa, seduto in un cantuccio.

Guardava fisso, oltre i bagliori della legna che ardeva lentamente proiettando strane forme metafisiche tutt’intorno, verso l’oscurità della notte dolce. Tra uno sbadiglio e l’altro, riversati con fragore nell’aria avvolta dal sonno, cercava senza posa uno spiraglio da cui estrarre il giorno, novello Apollo in lizza con il dio delle tenebre, ma invano.

Non c’era, però, uno spazio limitato dove frugare con i piccoli occhi, alla ricerca di un passaggio segreto in cui sorprendere il sole addormentato; solo buio l’infinito, rotto dal fuoco morente che, nella cenere, aveva deposto il proprio ardore, si parava davanti. Sembrava lo sfondo incessante della vita, oppressa dal peso delle fatiche fisiche e interiori, e in quel deserto inanimato, popolato solamente dai fatui ardori delle stelle, si perdeva, alla ricerca di un tracciato che gli rivelasse la luce.

I suoi sguardi si consumavano, come le braci che aveva vicino, rese più vivide dall’ultimo via vai della brezza, anch’essa sopita sotto il peso di un affanno cosmico.

Andrea voleva resistere ai morsi del sonno e si sforzava di non chiudere gli occhi. Le palpebre premevano inesorabilmente come possenti saracinesche manovrate da un essere subdolo e dispettoso. Si alzava, allora, ascoltando il russare pesante degli uomini che vedeva distesi a decine come morti: concentrava l’udito verso quei mantici dalle fattezze umane, a tratti sibilanti, che si muovevano ritmicamente sovrapponendosi l’uno sull’altro.

Anche le cicale avevano da tempo lasciato il campo alla straordinaria rumorata che si levava a più voci, quasi che la notte avesse generato una nuova specie di insetti altrettanto fastidiosi.

Faceva un rapido giro per sgranchirsi le gambe, senza allontanarsi molto, temendo che la madre potesse svegliarsi e, non trovandolo, turbare il sonno degli altri, come era successo due anni prima. Ritornava al suo posto, e per resistere al peso opprimente che sentiva sugli occhi si accucciava seduto, abbracciando le ginocchia, lo sguardo fisso alle stelle.

Cominciava a contarle, ma perdeva il filo e la successione; allora prendeva a unirle lentamente, come nel gioco dell’oggetto nascosto da rivelare seguendo la sequenza dei puntini.

Mamma mia, quante sono!” La sua mente di bambino provava una sincera meraviglia nell’osservare la volta nera trapuntata di astri luccicanti ai quali provava a dare una forma bizzarra usando una matita immaginaria mossa magicamente attraverso la mente.

Di quell’artifizio utile a non rimanere preda del sonno si compiaceva e ancor più si beava nel chiudere la linea immaginaria intorno a un oggetto appena concepito nello spazio con il semplice pensiero.

E via così, fin quando non accadde qualcosa ancora più magico e infinitamente appagante.

Salvio Foglia

Continua…

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