Ustica sape

Il Faro incatenato (8^ puntata)

faro di Punta Cavazzi

Andrea era sul punto di crollare, la testa vacillava in presa ad un incessante torpore e gli occhi erano già semichiusi, ma come un miracolo inaspettato arrivò qualcosa di nuovo, che poi tanto nuovo non era per le vicende del mondo.

Il tempo non sarebbe tale senza un riferimento preciso, senza uno zero da cui partire per proiettarsi verso il ticchettio degli accadimenti sempre nuovi, spesso, paradossalmente, senza tempo. Ogni istante ha uno spazio da percorrere, altrimenti sarebbe ingabbiato in sé stesso, non esisterebbe.

Niente avrebbe senso, nulla potrebbe procedere verso un senso. Nessuna cosa, viva o inanimata che sia, potrebbe mutarsi, anche senza serbare l’apparenza che questo avvenga davvero. Potrebbe un fiore aprirsi e sbocciare? Riuscirebbe una montagna a perdere il suo contorno se non dovesse abbandonarsi al tempo? Senza tempo non c’è vita e ogni universo, umano e astrale, è rinchiuso nell’abisso del non è.

Lo zero stava ripartendo da un altro zero, che a sua volta era ripartito da un altro zero ancora, che a sua volta…

Il ragazzino spalancò gli occhioni, non senza un pesante sforzo intimo, guardò davanti a sè intontito e stanco.

Intorno a sé tanti paesi stavano dormendo ancora per terra, sul giaciglio dei loro remoti antenati e la notte aveva qualcosa di strano. Il buio non appariva più tale. L’intrigante velo nero della notte stava ora mutando aspetto: qualcuno stava aprendo lo spiraglio tanto cercato…

I suoi occhi, ora, non congiungevano con il pensiero stelle lontanissime per farne creature spaventose o innocui animali da cortile, ma frugavano tra quelle con insistente curiosità per capire come potesse succedere tutto questo: il nero mantello stava andando via e non capiva chi o cosa potesse muoverlo così lentamente, ma in maniera tanto netta.

La luce progrediva quasi senza farsi notare, eppure appariva all’orizzonte così viva da confondere il senso delle tenebre per restituire incerte sfumature di blu, scure all’inizio, per poi diventare sempre meno blu. Un chiarore appena accennato irradiava il cielo proprio dove lo spazio di contatto tra cielo e terra sembrava non dovesse finire mai.

La percezione era così intensa da trattenere il fiato: ogni secondo era un palpito e ogni palpito rappresentava il lento incedere della luce che, poco a poco, sovrastava ogni cosa, liberando la mente dalla schiavitù del sonno.

Non c’era rumore nell’aurora: tutto ancora era silenzio immoto La luce arrivava senza strombazzare. Solo il canto del gallo avrebbe dato sonoramente il senso dell’esperienza terrena e, appresso a lui, il cinguettio di tanti piccoli uccelli avrebbe suonato la sveglia al giorno incipiente.

Il buio si allontanava sempre più e le stelle si spegnevano lentamente, come inghiottite da un velo arrogante che ne impediva la visione. Aveva notato Andrea che ne era rimasta una più brillante delle altre, che si elevava dall’orizzonte come se avesse assorbito in sé il lume di tutti glia astri che fino a poco fa erano disseminati qua e là in ogni dove.

Saliva senza scatti questa stellina: la ritrovò poco dopo più in alto dopo averla lasciata appesa tra i rami di un albero, quando si era alzato in piedi, non senza vacillare per la stanchezza, per andare a fare la pipì dietro un muretto. Con il getto aveva disegnato un otto per terra e si era compiaciuto a contemplarlo per un po’.

Ora accade che mentre Venere stava annunciando il nuovo giorno sulla terra degli uomini un chiarore più intenso e netto apparve all’improvviso, in una deflagrazione silenziosa e irreale.

Il ragazzino dimenticò il suo otto ancora caldo e rimase in piedi impietrito.

L’orizzonte stava partorendo la luce. Ritornava nel mondo la sorgente di ogni chiarore e ne rimase affascinato. Protrasse la mano per prendere la palla infuocata, ormai lo spiraglio si era disvelato e lui avrebbe voluto magicamente trarre a sé quell’oggetto al quale tanto riposo aveva sacrificato.

La notte ora montava sulle sue spalle, si accingeva, prepotentemente, a salire a cavalcioni, come nei giochi di strada, addirittura sulla sua testa, che ora gli girava, pesante come un macigno sospeso in bilico sul dirupo di una rocca…

Andrea resisteva ancora, il sole era quasi a metà, non era ancora uscito del tutto; non si sarebbe perso quello spettacolo per niente al mondo.

“Adesso devo rimanere sveglio! Devo rimanere sveglio, adesso!” Dentro di sé parlava il cuore, e si faceva forza, come solo i piccoli sanno fare, estraendo nuova energia dal profondo.

Il parto era compiuto. Il sole, ora tutto intero, emergeva dalle fenditure della notte. Una mano apparve silenziosa. Andrea sentiva ancora la testa che pesava sul collo, ma non era la stanchezza.

Era la carezza della madre sui capelli arruffati e vispi, erano baci confortanti, erano abbracci che stringevano un bambino addormentato.

Salvio Foglia

Continua…

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