Ustica sape

I FRAMMMENTI DI VETRO DI PADRE CARMELO RACCONTANO GLI ANTICHI POPOLAMENTI DI USTICA


di Franco Foresta Martin

Occupavano meno di mezzo ripiano in una vetrina della Parrocchia  “San Ferdinando Re” a Ustica. Un frettoloso visitatore avrebbe potuto pensare: “Sono solo insignificanti frammenti di vetro, perché li tengono qui?”. Una fialetta spezzata trasparente, un fondo di bicchiere grigio, un manico di brocca verde, un bottone blu-cobalto, orli di vasi decorati, altre forme irriconoscibili.  Accanto ad essi, nella stessa vetrina, altri frammenti, ma di ceramica, e quindi più facilmente apprezzabili, simili a quelli custoditi nel Museo Archeologico dedicato a Padre Carmelo Seminara da Ganci, in Largo Gran Guardia. E poi, in altri ripiani della stessa vetrina, chiodi di epoca romana, qualche fossile, qualche minerale, mucchietti di ossidiane.  Insomma, tutta una miscellanea di minuti reperti archeologici trovati in giro per l’isola da quell’instancabile raccoglitore che era Padre Carmelo; e gelosamente conservati in Parrocchia, nella lungimirante consapevolezza che un giorno potessero svelare qualche particolare ancora inedito della storia di Ustica.

Quando notai quei frammenti di vetro nella nuova sistemazione che gli aveva dato Don Lorenzo Tripoli, l’attuale Parroco che ha raccolto l’eredità spirituale e culturale di Padre Carmelo, pensai: è arrivato il momento di farli esprimere, di sentire cosa possono raccontare del passato di Ustica. In precedenza mi ero occupato dell’analisi delle ossidiane raccolte da Padre Carmelo: scaglie di vetro vulcanico usate nella preistoria come coltelli e punte di frecce. Poiché il vulcanismo di Ustica non ha generato ossidiane, avevo determinato la loro provenienza, scoprendo che gli antichi usticesi importavano notevoli quantità di ossidiane non solo dalla vicina Lipari, ma anche dalla lontana Pantelleria.

“Ora –pensai– bisogna analizzare questi pezzetti di vetro e cercare di capire di quale manufatto facevano parte e quando furono forgiati dall’uomo”. E così ho avviato una ricerca sugli antichi vetri artificiali di Ustica, coinvolgendo la professoressa Donatella Barca, che insegna mineralogia applicata ai Beni Culturali all’Università della Calabria, e la dottoressa Ivona Posedi, ricercatrice in Archeometria all’Università di Lincoln, in Inghilterra. Un anno d’indagini varie: tipologiche (per il riconoscimento delle forme, per le quali abbiamo ricevuto gli ottimi suggerimenti dell’archeologa Francesca Spatafora); analisi degli elementi maggiori e degli elementi in traccia, per scoprire quale miscela di sostanze fosse stata usata per ciascuno di quei frammenti. Venire a capo della ricetta usata per ottenere il vetro fuso è fondamentale, poiché ogni epoca ebbe il suo miscuglio tipico. In epoca romana, fino al primo Medioevo, si utilizzò  sabbia contenente silice;  natron (cioè carbonati di sodio che si formano in bacini evaporitici);  e calcio preso da gusci di conchiglie. Il tutto fuso in forni che dovevano raggiungere circa mille gradi. Poi, quando cominciò a scarseggiare il natron, si utilizzarono soda e potassa contenuti nelle ceneri di piante.

Per farla breve, abbiamo ricostruito la composizione chimica di ogni frammento, associandola al periodo storico in cui era usata quel tipo di miscela. Risultati: abbiamo individuato vetri tipicamente romani, tardo-romani, medievali e sette-ottocenteschi, in linea con i periodi in cui l’isola di Ustica fu abitata. Finora non ci sono evidenze che nell’isola operasse una fonderia di vetri. I manufatti in vetro, come dimostrano anche alcune forme di cui si ha riscontro in musei siciliani, sembrano essere stati tutti importati.  Alcuni  vetri facevano parte di corredi funerari, altri adornavano le abitazioni di gente altolocata. Quanto ai luoghi in cui i frammenti furono raccolti da Padre Carmelo, non avendo trovato testimonianze scritte, possiamo solo fare affidamento sulla buona memoria del caro Giovanni Mannino, artefice fin dal secolo scorso di tante ricerche e scoperte archeologiche a Ustica: “Se non erro, qualche vetro si raccolse nello sterro della tomba paleocristiana III della Falconiera, ed in genere nelle fattorie”.

Lo studio, che qui ho estremamente semplificato e riassunto per i lettori di Usticasape, è stato pubblicato proprio oggi (7 agosto 2020) sulla rivista scientifica internazionale Open Archaeology e si può scaricare in formato digitale da questo link: https://www.degruyter.com/view/journals/opar/6/1/article-p124.xml?rskey=obyqj2&result=2

Un ringraziamento di cuore, per il sostegno a questa ricerca, a Don Lorenzo Tripoli e a Francesca Spatafora.

In tabella: alcuni dei reperti analizzati. Nelle foto, i tre autori della ricerca.

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