Ustica sape

Da Cosenza Salvio Foglia


[ id=4616 w=200 h=180 float=left]In riferimento ai Gamberi del sig. Picone dalla Germania. Qualche anno fa, andando a mare con gli amici, in strada notammo strani figuri scendere da furgoncini bianchi refrigerati, provenienti da fuori regione. Erano armati di bastoni uncinati e provvisti di attrezzatura subacquea. Cosa facessero lo scoprimmo di lì a poco, al ritorno.
Pescarono una quantità enorme di ricci di mare – uno spettacolo deprimente – e gli avvistamenti si ripeterono di frequente.
Da bambino dovevi stare attento a dove mettevi i piedi, pena un paziente intervento di recupero spine, sottopelle…
Oggi, in un mare dove è sorta una riserva marina, tra Crotone e Capo Rizzuto i ricci di mare, sono una rarità, ma anche a Ustica non si scherza…
Sono lontanissimi anni luci i tempi in cui, complice la luna piena, l’acqua diventava lattiginosa – a raccontare queste cose era mio padre – per la riproduzione di quegli animaletti puntuti.
Il (legittimo, non v’è dubbio) desiderio di fare grandi scorpacciate di ricci e frutti di mare, si scontra con quello – meno nobile e di poca durata – di chi il mare non lo rispetta o ha delle remore antiche a farlo.
Spero che i gamberi mangiati in Germania dal Sig. Picone non avessero le uova – e penso di no, come quello, invece, della foto.
Altrove, nei piatti da portata, vanno a finire proprio quelli lì, che hanno quello strano fagotto blu e grigio sull’addome… – provare per credere.
Un caro saluto ai gamberi delle grotte di Ustica: che siete sempre di meno, mantenetevi forti!
Un carissimo saluto anche a tutti voi, amici usticesi, che mi regalate belle pagine di vita quando vengo a trovarvi…
A presto

Salvio Foglia

Da Cosenza Salvio Foglia


[ id=4055 w=200 h=180 float=left]Carissimo Pietro,

finite le ferie, si torna alla vita di prima. Riprendo con molto piacere anche questo contatto che mi riporta a Ustica, al piacere di averti conosciuto a casa, ai brindisi fatti insieme a Grazia (che saluto) da Giulia. Ricordi?
Ti allego un brevissimo racconto, che riassume brevemente la sorpresa e l’imbarazzo nel dover apprendere di rimanere forzatamente su un’Isola “isolata” !
Quello di inviare qualche breve riflessione vorrei, per me, che fosse un appuntamento stabile. ci proverò, e, se gradirai, sarò gratificato dalla tua lettura e da quella dei tanti appassionati del tuo blog e di Ustica.
Stai bene. A presto

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“USTICA ISOLATA”

Il belvedere, appena accanto la piazza, è inondato dal sole al tramonto. Lunghe ombre si delineano sempre di più: stanno per vincere la quotidiana battaglia che le oppone al nitido chiarore del pomeriggio.
La luce che avvolge le cose d’intorno è calda, intensa; il mio corpo è completamente preda di questo abbraccio ineffabile, ma forte, così denso di sensuale voluttà, anche se tra breve verrà meno, per far posto, con gelosia, all’intimo approssimarsi della sera…
Il vento agita il mare, strapazza la superficie blu che questa mattina appariva accogliente e maliarda, tranquilla come quella bianca colomba che avevo scorto sul davanzale di una finestra; stava acquattata con le ali ripiegate e gli occhi semichiusi a godere del tepore e degli ultimi bagliori di luce.
Non avevo nulla da fare, ricordo, in quel momento in cui un placido ozio si era impossessato della mia volontà.
In verità avevo deciso di evitare ogni fatica: solo le braccia, appoggiate sulla balaustra, non potevano sottrarsi allo sforzo, mentre gli occhi non volevano abbandonarsi completamente.
La vista del mare mosso, con l’orizzonte che accarezza il cielo e la bianca schiuma di onde alte e non certo gioiose è affascinante: un palco a teatro – con la visione dall’alto rivolta ad un palcoscenico cesellato da una scenografia ridondante – non avrebbe potuto garantire lo stesso effetto.
Mare mosso. Già, mare dapprima calmo, quieto, quasi fermo e poi sempre più lascivo: quante volte accade!
Vento e mare si alleano, anzi il primo predomina sull’altro e vi monta sopra; come su di un magnifico purosangue si lancia repentinamente al galoppo, invitando ad una frenetica danza coda e criniera. La terra si frantuma sotto il colpo degli zoccoli e una scia bianca e polverosa si alza in maniera squilibrata, in attesa di cadere nuovamente o perdersi nell’aria vibrante.
Il mare è imbrigliato da un fantino invisibile e audace, che dirige la sua corsa incurante di ostacoli e barriere, non ama ragionare, lui; si abbatte implacabile senza rallentare fino a quando, nei suoi lunghi giorni di corsa senza freni non cede alla stanchezza e si placa …per poi riprendere fiato e correre ancora.
Mentre gli occhi indagano supponenti ogni angolo di cielo e la mente continua le sue evoluzioni immaginarie, mi accorgo, quasi per caso, che manca tanta gente in giro. Eppure l’isola è piena di turisti: è strano, ma non faccio caso più di tanto, tutto è apparentemente normale.
Lascio il belvedere e, fatti pochi passi, arrivo in piazza. Do una breve occhiata alla facciata della chiesa e mi muovo tra le persone senza fretta, per sedermi ad una panchina.
In tanti parlottano animatamente, con fare interrogativo e serio. Due uomini che si avvicinano parlano quasi ad alta voce e sembrano preoccupati.
Li sento, ora sono a un passo da me. Dicono che l’aliscafo non partirà a causa del mare molto mosso ed in peggioramento.
All’improvviso si affaccia come un orrido spettro la triste prospettiva di non potersi muovere dall’isola, una iattura per chiunque, ma soprattutto per chi perderà aerei, treni, giorni di lavoro, appuntamenti vari e chissà quale occasione…
E’ quasi ora, ed è vero.
L’aliscafo non se ne va da Ustica, non si perde tra le onde, lasciando la consueta lunga scia di schiuma traballante e incerta, rimane immobile in banchina.
Ora siamo in tanti a guardare dal belvedere; l’acqua dell’approdo è quasi ferma, mentre fuori il vento aumenta ancora di più e le onde sono molto alte.
Ora capisco, la soluzione di quel dubbio fugace è lì, oltre il molo; la risposta è su quei marosi aitanti e terribili: manca tanta gente in giro perché un buon numero di persone ha anticipato la partenza, temendo il peggio.
Incontro una vecchia conoscenza che lavora al porto il quale, intuendo la mia agitazione mi rassicura dicendomi: “Domani partirai, vedrai, il comandante è tranquillo, sa il fatto suo !“
Mi sta prendendo in giro e lo fa con un sorriso.
La notte arriva prima, annunciata da nuvoloni non certo incoraggianti: il cielo è nero, cianotico e io, per una volta, non mi sono curato delle previsioni del tempo, non le ho neanche viste o sentite…
Il rumore dei tuoni in lontananza diventa via via più vicino, fino a trasformarsi in boato e gli scrosci di pioggia si alternano a piccole, illusorie, sortite di quiete.
Il pensiero della partenza aveva reso insonne e tormentato quell’intervallo temporale in cui ognuno dovrebbe poter trovare un piccolo spazio di riposo.
Il vento non cala.
Fuori dalla finestra è un continuo sibilare minaccioso. Il ticchettio non è quello dell’orologio, ma delle imposte che vibrano urtando ai fermi.
E’ quasi mattina.
Mi riaddormento fiducioso, non già sperando che l’aliscafo mi porti via alle sette – ho dato per scontato che questo non accadrà, ormai, – semmai confido in un miglioramento della situazione meteo durante la giornata, in maniera tale da partire comunque, sfruttando una corsa qualsiasi.
Al risveglio saluto mentalmente l’aereo che sta per partire da Punta Raisi, sì, proprio quello che, ahimè, ho perso, ciao ciao…
A colazione mangio pane e fichi, una consolazione dai sapori fini e rari…

Pane e Fichi di Salvio Foglia


[ id=3114 w=320 h=240 float=left]Quella mattina non c’era nessuno. Ero solo. Anche la pensione era vuota.
I tavoli erano in ordine, tovaglie rosso intenso, pulitissime, li adornavano, creando un’atmosfera forte e sensuale.
Non c’era altro, né piatti, né tazze.
Solo un tavolo era diverso. Era apparecchiato in maniera differente dagli altri, la tovaglia azzurro mare spiccava su tutte e, contrariamente al resto, recava, come in grembo, piattini bianchi e tazze dello stesso colore.
L’arancio marcato della marmellata di albicocche sembrava un sole su quel cielo azzurro affollato di nuvole di ceramica candida.
Il burro era gelido, appena tolto dal frigo, chiuso nella sottile stagnola dorata: apro il minuscolo velo metallico e appare subito il piccolo parallelepipedo bianco.
Inizio a spalmarne un pezzettino su una fetta biscottata, ma è un disastro, quel pane tostato fa le bizze e si sgretola ad ogni contatto.
Tutto qui?, pensavo… Mi daranno un po’ di latte e la colazione è finita!
Mi guardo attorno, una ragazza mi saluta timidamente e viene incontro al tavolo, chiedendomi cosa voglio.
Ha ancora addosso la stanchezza della sera prima. Si vede che ha dormito poco.
E’ la stessa che ieri mi ha servito la cena sciorinando il menu a voce. Già, il menu vocale… Che strano, tutti quei piatti letti a me – ma anche agli altri clienti – d’un fiato, senza possibilità di riflettere, se non un momento, altrimenti perdi il filo e confondi le pietanze…
“Un caffellatte, grazie”, rispondo subito.
La ragazza va via subito, senza dire una parola, quasi scappa.
La penombra avvolge ogni cosa: le imposte di legno sono chiuse, solo da una finestra semiaperta fa capolino timidamente la luce del mattino, che si fa strada senza tanti complimenti tra le fessure delle persiane.
Che strano essere lì, da soli, in una stanza deserta, tutto tace. Cosa ci faccio tutto solo? Perché sono venuto in questo posto?
Quando, tra me e me, mi rispondo che è una vecchia storia, giunge la ragazza con il latte caldo, macchiato di caffè profumato. Una nuvola di schiuma quasi trabocca dall’orlo ed è un peccato dover infrangere con il cucchiaino quel candore striato di aroma.
Mi ero sbagliato, per fortuna.
Come sempre accade, il giudizio affrettato e sommario uccide il buon senso e vela la coscienza.[ id=3113 w=320 h=240 float=right] La colazione non era finita.
Lei, non saprei come chiamarla, non la conoscevo, ieri sera non ne ho afferrato il nome, lei, mi porta un piatto con i biscotti fatti in casa e la ciambella sfornata poco prima.
La pasta dorata e cotta in forno ha un sapore antico, di cose buone, di infanzia.
E’ piacevole rompere delicatamente quelle bizzarre forme diseguali che mani attente e sempre operose hanno modellato in un batter di ciglia; farne briciole da far cadere nel caffellatte è una esperienza tattile che sprigiona, ad ogni pressione, un segreto nascosto nella pasta frolla.
La mattina inizia con un buon sapore, si percepiscono odori e il gusto, con gusto, trasmette un messaggio di sincera pace a tutto il corpo.
Dimentico le fette biscottate, troppo friabili per accogliere il burro compatto e duro, e spalmo la marmellata su di una fetta di ciambella, non prima di averne assaggiato un poco senza niente, così, per avere in bocca una fragranza semplice e piacevole.
E’ un matrimonio di colori poveri che la marmellata nobilita e rende vivi.
In cuor mio ero soddisfatto, contento di essere stato smentito da quel garbo e da quel silenzio non certo opprimente, ma complice, dalla luce fioca non più opaca ai miei occhi, anzi, così timida e riservata come la ragazza che mi aveva servito.
Pensavo di alzarmi, di andare via da quella sala che trovavo ora ancora più accogliente di prima, ma qualcosa, anzi, sempre lei, che ancora lottava con la stanchezza della sera prima, mi chiese: “Vuole dei fichi?”
Li aveva in mano, no, per meglio dire, erano in una ciotola che stava poggiando sul tavolo.
Mi meravigliai e credo se ne accorse, una meraviglia di piacere.
“Sì, grazie, e anche del pane”, le risposi, senza stare tanto a pensarci.
Pane e fichi, i primi fichi della stagione, non dolcissimi, d’accordo, ma è semplicità, semplicità che fa impallidire ogni più sontuosa colazione.
Pane e fichi da Giulia: …sensazioni che non dimenticherò.

Salvio Foglia

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